
Monsignor Claude Rault.

Uno scorcio del Sahara algerino. In primo piano un curioso cartello che invita quanti percorrono in jeep le carovaniere a prestare attenzione all’attraversamento dei cammelli, che possono costituire un pericolo per chi viaggia.
Padre, dopo i terribili anni ’90, segnati dalla guerra civile e dalla violenza, qual è oggi la situazione della Chiesa d’Algeria? I cristiani sono in pericolo?
«No, attualmente non si segnalano particolari situazioni di rischio. A differenza di quanto accade in altri Stati a maggioranza islamica, la Costituzione algerina prevede la libertà di coscienza e recentemente il Ministro per gli Affari Religiosi si è proclamato rappresentante tanto dei musulmani, quanto di cristiani ed ebrei. Possiamo dire che il piccolo gruppo di cristiani algerini è parte integrante del “paesaggio religioso”: abbiamo buoni rapporti col mondo islamico e di solito siamo rispettati. Ciò è anche dovuto al fatto che la nostra comunità ha un atteggiamento di apertura e non cerca di fare proselitismo. Più in generale va osservato che a partire dal 2000, così come la società civile ha cercato di voltare pagina, anche la Chiesa si è profondamente rinnovata. Non è più la chiesa post-coloniale costituita in maggioranza da Europei: attualmente tra i cattolici di Laghouat-Ghardaïa si contano 18 nazionalità e ora che, raggiunti i 75 anni, si avvicina il termine del mio mandato, lascio una comunità composta in buona parte da giovani».
Insieme al priore Christian de Chergé, lei è il fondatore del Ribat Es-Salam (Vincolo di Pace), un gruppo di dialogo islamo-cristiano che ha resistito negli anni, nonostante durissime prove e persecuzioni (nel ’96 il confratello e amico De Chergé, insieme ad altri sei religiosi del monastero di Tibhirine, è stato rapito e assassinato da un commando terrorista, ndr). In un momento difficile per il dialogo interreligioso, qual è l’insegnamento più prezioso che possiamo trarre da questa esperienza?
«Credo sia l’atteggiamento reciproco sotteso agli incontri. Non è un gruppo di discussione, ma di preghiera. E l’obiettivo è prima di tutto quello di conoscere la religione dell’altro. Ci sentiamo vicini e uniti in quanto cercatori del Dio unico. Questo ovviamente non significa annullare le differenze, ma armonizzarle. Prova ne è che il Ribat non ha mai cessato di riunirsi, anche nei momenti più drammatici, bui e dolorosi. Tuttora questa esperienza prosegue ed è radicata in tutte e quattro le diocesi d’Algeria (nella mia comunità i componenti sono una ventina tra cristiani e musulmani e gli incontri avvengono due volte l’anno). I momenti forse più toccanti sono quelli in cui restiamo in silenzio, uniti nella preghiera».

Preghiera serale nel Sahara.

Monsignor Claude Rault fotografato nel Sahara.
«Di sicuro serve un atteggiamento accogliente, che consideri i migranti come delle persone e non come un problema. Ma ciò non è sufficiente, perché in alcuni Stati africani l’Europa e più in generale i Paesi occidentali hanno delle responsabilità enormi. Basti pensare alle speculazioni sui prezzi di materie prime come caffè, cacao e cotone. A farne le spese sono, ovviamente, i più poveri, come ho constatato di persona in Burkina Faso. Non potremo mai affrontare la tragedia delle migrazioni se non porremo fine a queste ingiustizie. Per concludere, dopo tante traversie e tante prove, come immagina il futuro delle comunità cristiane in Algeria? Rispondo citando il pensiero di un grande mistico, la cui vita resta indissolubilmente legata a quella dell’Algeria: Charles de Foucauld. Anche quando non possiamo parlare di Gesù, possiamo essere una pagina di Vangelo. Questo è valido in ogni epoca e ad ogni latitudine. Se siamo un segno dell’amore di Cristo il futuro non ci spaventa».
10/10/2015