Blog di FORMAZIONE PERMANENTE MISSIONARIA – Uno sguardo missionario sulla Vita, il Mondo e la Chiesa MISSIONARY ONGOING FORMATION – A missionary look on the life of the world and the church
Quando ad Amsterdam ebbe luogo uno sciopero generale conto il progrom (uno sciopero che unì l’intera società), la risposta nazista non si fece attendere: gli ebrei furono licenziati in massa dai loro impieghi, venne loro impedito di frequentare i luoghi del commercio e del tempo libero, e furono selezionati per esperienze di rieducazione. Nella regione orientale dell’Olanda venne aperto in fretta e furia un campo di concentramento intermedio, una sorta di anticamera di Auschwitz. Lo sciopero generale si svolse nel febbraio del 1941.
A marzo una ragazza di Amsterdam cominciava a scrivere il suo diario, su un modesto quaderno a quadretti. Iniziava così una delle avventure letterarie e spirituali più significative del secolo. L’autrice aveva ventisette anni e sarebbe morta prima di compiere i trenta. Si chiamava Etty Hillesum. Grazie alla protezione di qualche amico, Etty entra quello stesso anno come dattilografa in uno dei dipartimenti del Consiglio Ebraico. Un po’ come negli altri territori occupati, questo organismo nasce per mediare le relazioni tra il popolo ebraico e le autorità, cadendo facilmente preda delle manipolazioni naziste. Etty se ne rende conto e decide di lasciare gli uffici chiedendo di seguire, come volontaria, i primi deportati. Dentro di lei prendeva già forma la coscienza che quell’ora estrema aveva un significato cui non avrebbe potuto sottrarsi.
Dall’agosto 1942 al settembre 1943 vive nel campo di concentramento di Westerbork, lavorando nel più che improvvisato ospedale. Uno dei vantaggi del suo statuto di volontaria era di poter tornare ogni tanto ad Amsterdam. E là si produce l’inaudito. Nella sua camera «così bella e tranquilla» è afferrata da una nostalgia incontenibile di Westerbork: «Questi mesi tra il filo spinato sono stati i mesi più intensi e più ricchi della mia vita». I suoi amici che erano entrati nella Resistenza le spiegarono tutti i pericoli che correva, volevano che fuggisse finché fosse in tempo, minacciarono persino di costringerla, ma a tutti rispondeva che non la capivano. Ciò che Etty intuì in maniera folgorante è che l’esperienza di quell’inferno esige una reinvenzione umana radicale. «Dovrò trovare un linguaggio interamente nuovo», scrisse.
La vediamo nel campo di concentramento, dapprima come volontaria e poi prigioniera, camminare nel fango, spendendosi fino in fondo per i deportati, lei stessa attaccata da violenti dolori, ma sempre in cerca di una finestra da cui scorgere un frammento di cielo. I suoi scritti sono abitati, è vero, da interrogativi laceranti: «A volte mi domando, in momenti difficili come questa notte, che progetti hai in serbo per me, mio Dio». Ma il suo tratto più forte è quello di una inspiegabile fiducia: «La notte scorsa alle due, quando sono finalmente salita di sopra e mi sono inginocchiata nel mezzo della camera quasi nuda e completamente sciolta, ho detto improvvisamente: ho certo vissuto delle cose grandi quest’oggi».
È impossibile non accostare il percorso di Etty Hillesum a quello di Simone Weil. Sono contemporanee, entrambe ebree, si battono per preservare un sole interiore in un secolo di esperienze tenebrose, tutt’e due scrittrici, l’una e l’altra a consumare fino alla fine (meglio, oltre la fine) un destino di annichilimento come si trattasse di un’incredibile avventura spirituale. Le avvicina anche la morte, occorsa lo stesso anno: il 1943. Simone muore in un sanatorio inglese, come se spirasse tra le vittime, sul fronte più esposto di una battaglia; Etty, in un campo di concentramento, per il quale era partita cantando. La Croce Rossa comunicò la sua morte il 3 novembre 1943.
Avvenire 19/11/2015