Blog di FORMAZIONE PERMANENTE MISSIONARIA – Uno sguardo missionario sulla Vita, il Mondo e la Chiesa MISSIONARY ONGOING FORMATION – A missionary look on the life of the world and the church
Infaticabile promotore dell’evangelizzazione del Giappone», Justus Takayama Ukon «fu un autentico guerriero di Cristo, non con le armi di cui era esperto, ma con la parola e l’esempio». È il profilo spirituale del martire laico che il cardinale Angelo Amato ha beatificato martedì 7 febbraio, durante la celebrazione presieduta a Osaka in rappresentanza di Papa Francesco.
Il prefetto della Congregazione delle cause dei santi all’omelia ha ricordato come il nuovo beato (1552-1615), «educato all’onore e alla lealtà», maturò una «fedeltà al Signore Gesù così fortemente radicata da confortarlo nella persecuzione, nell’esilio, nell’abbandono». Infatti, ha aggiunto, «la perdita della sua posizione di privilegio e la riduzione a una vita povera e di nascondimento non lo rattristarono, ma lo resero sereno e perfino gioioso, perché si manteneva fedele alle promesse del battesimo».
Del resto, la singolare biografia di Justus è quella di «un principe di altissimo rango, appartenente alla classe più nobile del Giappone», che all’alba dell’evangelizzazione del suo Paese decide di abbracciare con entusiasmo la nuova fede portata dai missionari gesuiti. Anzi, ha sottolineato il celebrante, «con l’intento di diffondere il cristianesimo, fonda seminari per la formazione di catechisti» autoctoni, tra i quali molti subirono il martirio, come san Paolo Miki. Ma quando venne ordinata «l’espulsione dei missionari, interrompendone così la feconda attività evangelizzatrice», Justus piuttosto che abbandonare la fede scelse l’esilio. Riabilitato nel 1592, purtroppo nel 1614 subì l’emanazione di un nuovo editto che ingiungeva di abbandonare il cristianesimo. «Il rifiuto — ha ricordato il cardinale Amato — costò a Justus un sofferto periodo di privazioni e di solitudine. Prima deportato a Nagasaki, fu poi condannato all’esilio nelle Filippine». Insieme con trecento cristiani raggiunse Manila dopo una lunga e travagliata navigazione durata 43 giorni. Indebolito dalle malattie contratte durante la deportazione, si spense nella capitale filippina 44 giorni dopo l’arrivo. «Aveva 63 anni — ha spiegato il porporato — la maggior parte dei quali passati come straordinario testimone della fede cristiana in tempi difficili di contrasti e di persecuzione».
In pratica, ha detto ancora il prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, il nuovo beato «visse da cristiano, non considerando il Vangelo come una realtà estranea alla cultura giapponese». Anzi «d’accordo con l’approccio dei missionari gesuiti, egli puntava esclusivamente sull’annuncio del Vangelo e sulla figura di Gesù, che donava la vita per la salvezza degli uomini e per la loro liberazione dal male e dalla morte». Al punto che «gli ultimi mesi della sua esistenza furono un continuo corso di esercizi spirituali, accompagnato dalla preghiera, dai sacramenti, dal raccoglimento e dalle conversazioni spirituali con i missionari». E fu «con questi sentimenti» che «accolse la morte offrendo la vita per la conversione del Giappone, pregando e perdonando i suoi persecutori. Spirò — ha rimarcato il cardinale Amato — invocando il nome di Gesù e consegnando come il protomartire Stefano il suo spirito al Signore».
Infine il porporato ha attualizzato la propria riflessione evidenziando l’eredità che Justus ha lasciato ai cristiani giapponesi. Egli, ha detto, «viveva di fede. E la viveva valorizzando le tradizioni della sua cultura». Con «il suo comportamento autenticamente evangelico aveva colto il messaggio centrale di Gesù, la legge della carità. Per questo era misericordioso con i suoi sudditi, aiutava i poveri, dava il sostentamento ai samurai bisognosi. Fondò la confraternita della misericordia. Visitava gli ammalati, era generoso nell’elemosina, portava assieme al padre la bara dei defunti che non avevano famiglia e provvedeva a seppellirli». Inoltre, ha concluso, «la spiritualità ignaziana lo spingeva alla meditazione, al silenzio, alla preghiera, al raccoglimento, alla mortificazione, al discernimento, alla rinuncia a se stesso».
‘Osservatore Romano, 7-8 febbraio 2017