– sottile indagatore dei più riposti moti del cuore, della lotta interiore fra il bene e il male, della dialettica fra “tentazioni” e risposta della coscienza.
Si potrebbe quindi dire che in quello che chiamo “cattolicesimo romano” si intrecciano tre aspetti, oltre ovviamente a quello religioso: l’estetico, il giuridico, il politico. Si tratta di una visione razionale del mondo che si fa istituzione visibile e compatta e che entra fatalmente in conflitto con l’idea di rappresentanza emersa nella modernità, basata sull’individualismo e su una concezione del potere che, salendo dal basso, finisce per mettere in discussione il principio di autorità.
3. Questo conflitto è stato considerato in modi diversi, spesso opposti, da coloro che l’hanno analizzato. Carl Schmitt guardava con ammirazione alla “resistenza” del “cattolicesimo romano”, considerato come l’ultima forza in grado di frenare le forze dissolvitrici della modernità. Altri lo hanno duramente criticato: in questa lotta, la Chiesa cattolica avrebbe rovinosamente enfatizzato i suoi tratti giuridico-gerarchici, autoritari, esteriori.
Al di là di queste opposte valutazioni, è certo che negli ultimi secoli il “cattolicesimo romano” sia stato costretto alla difensiva. A mettere progressivamente in discussione la sua presenza sociale è stata soprattutto la nascita della società industriale e il conseguente processo di modernizzazione, che ha avviato una serie di mutamenti antropologici tuttora in atto. Quasi che il “cattolicesimo romano” fosse “organico” (per dirla con linguaggio vetero-marxista) a una società agraria, gerarchica, statica, basata sulla penuria e sulla paura e non trovasse invece una rilevanza in una società “affluente”, dinamica, caratterizzata dalla mobilità sociale.
Una prima risposta a questa situazione di crisi fu data dal concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965), che nelle intenzioni di papa Giovanni XXIII che lo aveva convocato doveva operare un “aggiornamento pastorale”, guardare cioè con nuovo ottimismo al mondo moderno, insomma abbassare finalmente la guardia: non si trattava più di portare avanti un secolare duello, ma di aprire un dialogo e operare un incontro.
Il mondo era percorso in quegli anni da cambiamenti straordinari e da un inedito sviluppo economico: probabilmente la più sensazionale, rapida e profonda rivoluzione nella condizione umana di cui ci sia traccia nella storia (Eric J. Hobsbawm). L’evento concilio contribuì a questo mutamento, ma ne fu a sua volta travolto: il ritmo degli “aggiornamenti” – favorito anche dalla vorticosa trasformazione ambientale e dalla convinzione generale, cantata da Bob Dylan, che “the times they are a-changin'” – sfuggì di mano alla gerarchia, o almeno a quella sua parte che voleva operare una riforma, non una rivoluzione.
Così fra il 1967 e il 1968 si assistette alla “svolta” di Paolo VI, che si espresse nell’analisi preoccupata delle turbolenze sessantottine e poi della “rivoluzione sessuale” contenuta nell’enciclica “Humanae vitae” del luglio 1968. Tanto era il pessimismo a cui giunse negli anni Settanta quel grande pontefice che, conversando col filosofo Jean Guitton, si domandava e gli domandava, riecheggiando un inquietante passo del vangelo di Luca: “Quando il Figlio dell’Uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla terra?”. E aggiungeva: “Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte”.