Blog di FORMAZIONE PERMANENTE MISSIONARIA – Uno sguardo missionario sulla Vita, il Mondo e la Chiesa MISSIONARY ONGOING FORMATION – A missionary look on the life of the world and the church
Accettare di parlare a un muro è una inevitabilità imposta dalle cose grandi della vita: l’amore e l’amicizia, la scoperta e la trasmissione della conoscenza, l’organizzazione della vita comune o il cammino di fede. E si può riassumere così: ovunque si sviluppi una relazione, e quanto più decisivo sia il suo ambito, ci confrontiamo con la difficile e necessaria evidenza che ognuno di noi, in un momento o nell’altro, si troverà a parlare a un muro.
La semantica del muro non è necessariamente negativa. Il suo significato ci avvicina alla sovrabbondanza della vita, che se ne ride sempre delle pretese che noi macchiniamo di conoscenza e di controllo di tutta la linea. Essa mette a nudo una delle componenti di cui una relazione deve tener conto: l’impossibilità, tante volte, di arrivare all’altro, o di arrivarvi nella forma perfetta che noi idealizziamo. I genitori che si disperano per i figli adolescenti (o viceversa), i professori che alla fine della lezione escono con la sensazione di non essere stati minimamente ascoltati, coloro che credevano di essere tra loro in un rapporto di familiarità e che, al presentarsi di una situazione un po’ più critica, si accorgono di essere estranei, tutti costoro s’imbattono in muri.
Certamente bisognerà darsi molto da fare per superare la situazione, ma in tali circostanze c’è una verità che siamo chiamati ad approfondire: che tutta la nostra conoscenza è marchiata da un’incompletezza, un limite, e che il sapere non può essere privilegiato come condizione del senso. La vita è un laboratorio di umiltà, in cui le nostre prospettive si fanno e rifanno continuamente. E poiché la vita si esprime in forma contraria alla clonazione e al ricalco, non avanza immutata e ripetendosi, non ama i mimetismi. Ha il suo modo irriducibilmente singolare e proprio di costruirsi; conta di poter interagire, come tutto ciò che è vitale, in un dialogo libero con la soggettività; accetta iati, ritardi e differenze; parla ai muri.
Io parlo ai muri è il titolo che Jacques Lacan diede alla serie di seminari che tenne nella cappella dell’Ospedale psichiatrico Sainte-Anne di Parigi, tra il 1971 e il 1972. Lacan sceglie per epigrafe una breve poesia di Antoine Tudal – «Tra l’uomo e la donna / C’è l’amore. / Tra l’uomo e l’amore / C’è un mondo. / Tra l’uomo e il mondo / C’è un muro» – per ricordare che nell’amore c’è sempre un ostacolo in gioco, una lontananza, una distanza irrecuperabile, un muro, appunto. Egli esplora poi le associazioni sonore che si possono stabilire tra muro (in francese mur) e specchio (miroir), o tra muro e amore (amour), e suggerisce due neologismi: muroir, il muro-specchio, e (a)mur, il muro che è un non-muro. La difficoltà ci riflette più degli immediatismi, l’amore riconverte i muri in figure che li trascendono. E Lacan spiega perché dobbiamo accettare di parlare ai muri. Si potrebbe affrettatamente opinare che rivolgere la voce a un ostacolo è, di per sé, un atto inutile. Ma contro i muri la voce dell’amore risuona. Cioè: si rivela come una cosa (res) che non cessa di manifestarsi.
In un momento in cui l’Europa prende coscienza, e in forma così tragica, di alcuni dei suoi muri interni, è importante che imbocchi la strada, più che della tentatrice deriva securitaria, di una rinnovata capacità di parlare ai muri. E se consideriamo, nel percorso lacaniano, che il muro è linguaggio, dappertutto ci saranno muri. Ma il muro del linguaggio non è solo una barriera separatrice: è anche il territorio in cui diventa dono la parola, che, per esempio, rende possibili l’amore e la poesia, cooperando in questo compito improrogabile che è l’umanizzazione della vita.
Avvenire 10/09/2015
El Amor no quita los muros sino que los supera!
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