Blog di FORMAZIONE PERMANENTE MISSIONARIA – Uno sguardo missionario sulla Vita, il Mondo e la Chiesa MISSIONARY ONGOING FORMATION – A missionary look on the life of the world and the church
Possono diventare istanti di grazia tutti gli istanti della vita? Oppure no: ci sono istanti limpidi, incomparabili, di cui non conosciamo le regole, e solo questi sono portatori della possibilità di senso e redenzione per la vita? Non ho fatto sondaggi, ma direi senza troppe esitazioni che la maggior parte di noi propende per questa seconda ipotesi. La vita ordinaria gode di cattiva stampa, su di essa ricade un immutabile discredito, come se vivessimo scoprendo che quel che ci manca sta dall’altra parte. Guardiamo i giorni, il corso dei loro istanti reputati senza storia, stranamente sicuri che non da lì verrà quello che cerchiamo. Ci seduce molto di più lo straordinario: pensiamo che in fondo la felicità dipende dall’esperienza non usuale, discontinua, di una visita sporadica, di un lampo che non si arresta.
Se dovessimo segnalare, tra le pratiche artistiche, un esempio di questa sensibilità dominante potremmo citare le fotografie (peraltro stupende) di Henri Cartier-Bresson. Nell’introduzione al primo libro di immagini che pubblicò, egli propose una tesi precisa su quello che chiamava «l’istante decisivo». Oggi è impossibile pensare alla sua fotografia e, in certo senso, a quello che è la fotografia in generale, senza rivisitare quel testo che il tempo ha reso sempre più influente.
Il punto di partenza di Cartier-Bresson è un’epigrafe tratta dai volumi di memorie del Cardinale di Retz: «Non c’è nulla a questo mondo che non abbia un momento decisivo». E che cosa dice, in sintesi? Che quando lo sguardo del fotografo valuta il mondo, sa di esercitare un potere: può modificare prospettive, mettere la fotocamera vicina al soggetto o lontana, far risaltare un dettaglio o ricomporre la realtà.
Ma al fotografo accade anche di accorgersi che sono riuniti tutti gli elementi per un’ottima foto, eppure manca ancora qualcosa, e non sa quale. Finché sopraggiunge qualcosa di imprevisto ad attraversare la scena. Il fotografo si mette allora ad accompagnarne il movimento da dietro la sua macchina e aspetta, aspetta, aspetta. Quando infine preme il bottone, sente confusamente di avere captato qualcosa. Più tardi, in laboratorio, rivelando quel materiale si rende conto che ciò che ha captato era l’istante decisivo. Ha fissato l’istante senza il quale quell’immagine sarebbe banale, non possiederebbe la stessa forma, intensità, pulsione, mistero e vita. Per questo, l’attività del fotografo e dell’artista può solamente consistere in un’attesa aperta al momento straordinario.
Sarà così anche per noi? Forse nel lavorio interno che sviluppiamo, nella vita spirituale che si attiva in noi, è questo ciò che succede? Gli ingredienti ci sono tutti, ma non è ancora sufficiente. Il quotidiano è appannato, troppo incollato a quel che conosciamo, che ci è familiare. «Da Nazaret può venire qualcosa di buono?» (Gv 1,46), ci domandiamo incessantemente. Ci consumiamo nell’attesa diffusa di quello che verrà, preferiamo sempre il distante al vicino, il futuro al presente, e rendiamo l’esistenza una finzione di sé stessa.
Ma se non è ora, quando? Se la grazia non attraversa precisamente questi istanti grigi e contraddittori, questa montagna di emozioni disperse, questo corso che ci sembra troppo concreto, troppo ottuso, difficilmente la grazia si manifesterà altrove.
Anche qui il caso di Henri Cartier-Bresson ci può aiutare di nuovo. Perché la sua storia è, a conti fatti, più complessa. La curatrice di una grande mostra sulla sua opera ha portato alla luce elementi nuovi riguardo al suo modo di lavorare, fino a quel momento sconosciuti. Ciò che la sua ricerca è venuta a mostrare è che, più che di un «istante decisivo», si tratta con più verità di una «scelta decisiva», poiché il fotografo faceva diversi scatti della stessa scena, talvolta in grande numero, ma ne sceglieva solo uno ed eliminava gli altri. L’istante decisivo non è dunque un momento esteriore irripetibile, né quell’epifania che trova spazio in un batter di ciglia fuggitivo: è un istante, qualunque istante, che io faccio diventare decisivo, poiché in esso deliberatamente investo la mia speranza.