Blog di FORMAZIONE PERMANENTE MISSIONARIA – Uno sguardo missionario sulla Vita, il Mondo e la Chiesa MISSIONARY ONGOING FORMATION – A missionary look on the life of the world and the church
Un atto di potere di Cesare Augusto, sovrano dispotico di tutto il mondo, costituisce l’occasione temporale perché Gesù venga inserito nella discendenza davidica, come è stato profetizzato. (La storia non è fatta solo di causalità ma anche di casualità).
Luca annuncia, in forma solenne, un dato temporale: un decreto imperiale di Cesare Augusto per il censimento di tutto l’impero romano che verrà realizzato al tempo di Quirinio, governatore della Siria (6-9 d.C.), per servirsi di un movente casuale/causale che attribuisca a Gesù la discendenza davidica con la cittadinanza di Betlemme (città di Davide, ma nella Bibbia la città di Davide è sempre stata Gerusalemme, la capitale dove questo re ha iniziato la sua monarchia, il suo regno. Ebbene l’evangelista non è d’accordo, la città di Davide è Betlemme, dove lui è stato pastore! Quindi c’è allusione a colui che sta per nascere, il quale avrà i tratti di un re singolare, sarà un pastore per il suo popolo!).
Passiamo dalla regione paganizzata del nord (Galilea/Nazaret), senza alcuna tradizione davidica, alla regione profondamente religiosa del sud (Giudea/Betlemme), imbevuta di tradizioni ancestrali risalenti al re Davide. Gesù, figlio legale di Giuseppe e, tramite lui, di Davide, stante il decreto imperiale, nasce in Betlemme, nella città di Davide. I legami che lo legheranno alla tradizione davidica risulteranno puramente legali (Giuseppe/Betlemme). La difficoltà apparentemente insormontabile di armonizzare la nascita di Gesù al tempo di Erode il Grande (che morì il 4 a.C.) con il periodo in cui Quirinio fu governatore della Siria (diversi anni dopo la morte di Erode, cioè tra il 6-9 d.C.) si ingigantisce se il cosiddetto “vangelo dell’infanzia” viene letto come se fosse una cronaca della nascita di Gesù.
Tenendo presente che l’“ordine” con cui Luca ha disposto il testo (cfr. 1,3) non è un ordine cronologico, ma eminentemente teologico (senza pregiudizio della veridicità storica), i dati che possiamo ricavare dal racconto devono essere valutati con molta attenzione. La soluzione che offriamo, senza la pretesa di essere l’unica possibile, potrebbe contribuire ad aggirare il problema: il censimento che Cesare aveva ordinato di fare potè essere ultimato solo quando la Giudea venne incorporata nella suddetta provincia imperiale il 6 d.C. cioè dopo la morte di Erode e di suo figlio Archelao, mentre Quirinio era già governatore della Siria. Il carattere parenetico dell’inciso sembra voler puntualizzare che, sebbene il censimento fosse stato iniziato ai tempi di Erode, di fatto venne ultimato solo molto più tardi, quando questi era già morto. In ogni caso a Luca importa il dato teologico: il Messia doveva nascere a Betlemme, secondo la profezia di Michea (Mi 5,1; cfr. Mt 2,5); la sua nascita in quella città e il suo innesto nella casata di Davide sappiamo a quale evento fu dovuto.
Nell’anonimato più assoluto (Luca ha cercato di sostituire i nomi propri con pronomi), in un comune alloggio (è stato usato il termine kataliúmati=alloggio-casa e non pandochêion=locanda, albergo v. Lc 10,34; 22,11), una donna sconosciuta in quel villaggio dà alla luce un bambino destinato a cambiare il corso della storia della umanità. Non c’è posto per l’uomo-Dio, tra i suoi. Le fasce che lo avvolgono serviranno da segno, insieme alla mangiatoia, per poter essere riconosciuto dai pastori (cfr. 2,12) che lo riconosceranno, nonostante “i segni” comuni a tutti i bambini. La dizione “il suo figlio primogenito” è una chiara allusione al libro dell’Esodo 13,2.12: “Consacrami ogni essere che esce per primo dal seno materno tra gli Israeliti: ogni primogenito di uomini o di animali appartiene a me”; e “…tu riserverai per il Signore ogni primogenito del seno materno; ogni primo parto del tuo bestiame, se di sesso maschile, lo consacrerai al Signore”.
“ Lo avvolse in fasce”: il dettaglio delle fasce è un richiamo al libro della Sapienza 7,4-6: “Fui allevato in fasce e circondato di cure; nessun re ebbe un inizio di vita diverso. Una sola è l’entrata di tutti nella vita e uguale ne è l’uscita”. Gesù quindi nasce come tutti gli altri bambini. “E lo pose in una mangiatoia”: anche la mangiatoia è un richiamo al profeta Isaia 1,3: “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende”. Attraverso questi richiami l’evangelista vuol far comprendere che Gesù, come scrive Giovanni nel suo prologo: “venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto, non l’hanno riconosciuto”. La nascita di questo bambino passa inavvertita contrariamente alla nascita di Giovanni (cfr. 1,58: “i vicini e i parenti udirono…”).
La scena dei pastori, così familiare nei presepi, ha finito per significare tutto meno quello che voleva dire Luca. Nell’ambiente culturale del NT i pastori non ispiravano nessun sentimento bucolico; anzi, erano l’immagine vivente dell’uomo abbrutito dal continuo contatto con gli animali, disprezzato ed emarginato, che doveva vivere all’aperto, senza nessun diritto civile.
“L’angelo del Signore” che si presenta loro è l’angelo liberatore dell’Esodo; la notte ricorda quella pasquale. “La gloria del Signore che li avvolse di luce” contrasta con la paura immensa che li pervade (2,9); non avrebbero mai immaginato di essere proprio loro, i proscritti dalla società, i primi a essere informati della nascita di un bambino che doveva cambiare il corso della storia. L’annuncio gioioso dell’angelo rivolto a loro si estenderà a tutto il popolo d’Israele oppresso dai Romani e sottomesso all’arbitrio dei dirigenti.
Sebbene in questo “oggi” si inauguri la tappa finale della storia, la notizia non avrebbe trovato spazio su nessun periodico o rivista, anche se si trattava della nascita del Salvatore/Liberatore, del Messia in persona, Signore dell’universo che doveva iniziare la liberazione dell’uomo “nella città di Davide”, un riferimento a l’altro re che era venuto dall’anonimato del popolo (proprio Davide). La ragione è semplice: il segno che viene offerto è insolito e paradossale nella sua normalità: colui che rovescerà i potenti dai troni (1,52) non si presenta come un potente ma come un povero.
La gioia nell’ambito di Dio per la salvezza annunciata è immensa. Non potevano farne a meno! Gli Angeli volevano proclamare ai quattro venti che era nato il figlio di Dio, ma nella notte oscura dell’umanità hanno trovato svegli solo alcuni pastori.
PDF Lectio della Notte di Natale
Word Lectio della Notte di Natale
15 Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo, i pastori dicevano l’un l’altro: “Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”. 16 Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. 17 E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. 18 Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. 19 Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. 20 I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
Gli emarginati, scossi da quella notizia così sorprendente, vanno diritti all’obiettivo: vogliono vedere con i propri occhi che il loro sogno è diventato realtà. Essi entrano pienamente nel progetto di Dio: la loro azione è introdotta dal verbo che in Luca svela il progetto di Dio “eghéneto=avvenne che…”.
Trovano una piccola comunità familiare, presentata come qualsiasi comunità ben strutturata, con tre personaggi. Si tratta di un gruppo umano concreto (nomi propri), con funzioni ben differenziate: Maria, la madre che personifica l’amore fedele e disinteressato; Giuseppe, il padre/la tradizione patria, che ha messo il suo casato a servizio della causa dell’umanità; il bambino (ancora senza nome), deposto (attenti: il verbo kéimenon lo troviamo anche in 23,53 alla sepoltura di Gesù; solo per Maria in 2,7 abbiamo trovato anéklinen autòn= lo adagiò o lo pose) in una mangiatoia, impotente, emarginato quanto gli stessi pastori (parla con i fatti il loro stesso linguaggio). È l’inizio di un cambiamento di valori che farà storia.
Non è chiaro chi siano questi “tutti” ai quali i pastori comunicarono il contenuto dell’oracolo celeste. Per analogia con 1,65-66, potremmo suggerire che i pastori avessero diffuso la notizia tra i vicini. Di fatto, in Israele nessuno si aspettava una notizia del genere e tanto meno per bocca di gente così disprezzata. Per questo non le accordarono alcun credito.
La prima reazione, quella degli ascoltatori, fu solo di sorpresa. La reazione di Maria, figura dell’Israele fedele, è diversa. Pur non comprendendo, “conserva il ricordo”, cioè lo imprime nella memoria. Il fatto di conservare il ricordo di questi eventi nel “suo cuore” (cfr. 1,66) e di “meditarli”, faciliterà un giorno la sua comprensione.
La terza reazione, quella degli emarginati, assomiglia a quella degli angeli (“glorificando/gloria” e “lodando Dio”). Hanno potuto constatare (2,13-14) di persona la veridicità (emarginati sì ma tonti no!) dell’annuncio dell’angelo: è nato per loro un Salvatore che li strapperà dall’emarginazione, il Messia d’Israele e il Signore delle nazioni. Solo loro erano in grado di capire quel linguaggio così crudo. Luca, è come se dicesse: i pastori sono diventati angeli!
Alcuni anni fa lo scrittore ebreo Andre Neher ci parlava in un suo libro de “l’esilio della Parola”, introducendo il nostro sguardo nello spazio del “silenzio di Dio”, un silenzio che parla.
Vorrei muovermi in questo spazio di silenzio per potermi accostare insieme a voi a questo mistero dell’Incarnazione che ci ha sorpreso ancora una volta e poter trovare di fronte a questo bambino non solo la risposta alle nostre domande, ma innanzitutto la sovversione delle nostre domande.
Certamente la liturgia odierna ci fa sperimentare il “silenzio prossimo” del Figlio di Dio che l’evangelista Giovanni ci invita a contemplare con sommo amore facendoci scorgere in lui “l’esegeta del Padre” (v.18).
Chiediamo dunque non solo lo sguardo acuto e amoroso dell’evangelista, la “montagna” come lo chiama Agostino nel Commento al suo evangelo, ma anche un po’ di quella letizia e giocondità caratteristica di Francesco che a Greccio contemplò il Verbo fatto carne tra le sue braccia.
Ci soffermeremo soprattutto sul Prologo cominciando da alcune note esegetiche.
All’inizio di quella che Ireneo di Lione chiamava “la grande sinfonia della salvezza” e che Giovanni compone con il suo evangelo nel genere letterario del racconto, il Prologo ne anticipa in forma di inno personaggi, temi, eventi ed esiti: drammatici per alcuni, esaltanti per altri.
Da una parte: la Parola di Dio preesistente alla creazione, che diventa uomo in Gesù Cristo; Iddio, che è il Padre del Figlio Unigenito incarnato; il testimone Giovanni; Mosè.
Dall’altra: ogni cosa, ogni uomo, il mondo, i suoi (quelli nella cui casa è venuta la Parola), i figli di Dio, “noi”, “noi tutti”.
Vediamo adesso quali sono i temi che risultano dalla lettura del Prologo. Sono: la vita, la luce, la gloria, la grazia, la verità.
“Valori” che il lettore percepisce come importanti, affascinanti che in qualche modo comprende ma che restano al tempo stesso misteriosi e risvegliano la sua attenzione e il suo interesse e stimolano alla domanda che è essenziale per comprendere ancor più profondamente il mistero annunciato.
SI’, perché tutti questi “temi-valori” sono legati in maniera indissolubile al protagonista che è “la Parola” e alla sua avventura tra gli uomini.
Inoltrandoci nella lettura ci troviamo subito davanti all’antitesi luce-tenebre, che si risolve in modo drammatico: “La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno accolta, ma neppure l’hanno sopraffatta” (secondo il doppio significato del verbo katélaben di 1,5).
“La luce quella vera veniva nel mondo… e il mondo non l’ha riconosciuta” (1,10) “essa venne nella sua casa, e i suoi non l’hanno accolta” (1,11).
Ci troviamo di fronte ad un dramma. Nella Parola scaturita dal seno del Padre noi potremmo intuire tre movimenti che approfondiremo più avanti, per adesso dobbiamo fissare lo sguardo sulla Parola preesistente alla creazione, ma è importante farlo con grande umiltà, con povertà di spirito sapendo che Dio rivela i suoi segreti ai piccoli e ai poveri (Lc 10,21-22).
Come possiamo vedere il riferimento all’inizio della Genesi è d’obbligo ma con una differenza: invece di leggere il verbo al passato (“In principio Dio creò” o “Dio disse” Gn 1,1;3) noi troviamo qui una affermazione di una “esistenza” che precede (o presiede) questo principio.
La Parola non è l’inizio di ciò che è apparso nel mondo, non è la prima delle creature, ma questa Parola sconfina al di là del tempo e della storia nella stessa eternità di Dio.
Allora potremmo completare la lettura di Gn 1,1: “In principio Iddio creò il cielo e la terra” con Gv 1,1: “In principio la Parola esisteva già”, essa aveva una sua sussistenza prima ancora di modellare di se stessa l’intera creazione.
Come lettori siamo avvisati.
Nella Parola che diventò carne-uomo in Gesù Cristo e nella sua storia che l’evangelo si appresta a raccontare, noi andiamo ad incontrare uno che viene da lontano, dal “seno del Padre” (1,18), uno che porta in sé tutta la corporeità e la storia dell’uomo, ma le cui origini non sono nel tempo, in questo nostro mondo.
Il Natale di Gesù Cristo in Luca e Matteo corre da Nazareth a Betlemme; ma in Giovanni il Natale della Parola, fatta carne in Gesù Cristo è paradossalmente un non-Natale. “In principio la Parola esisteva già”.
Il contesto in cui vive l’esordio del Prologo di Gv 1,1-2 è un contesto dialogico e di comunicazione, non un contesto di azione e neppure azione creatrice di cui si parla soltanto dal versetto 3.
Giovanni afferma che in principio prima ancora dell’atto creativo, era la Parola, c’era la Parola, ovvero c’era la comunicazione.
Commenta X.Leon-Dufour: “Giovanni 1,1 modifica radicalmente la concezione che sovente si ha di Dio. Se la Parola appartiene alla sfera di Dio, se è il proprio di Dio, ciò significa che Dio non è una individualità (per quanto sovrana e trascendente) chiusa su se stessa, ma un essere che è potenza di espressione di sé, dualità nell’unico e come tale, sorgente di relazione, un essere rivolto verso un vìs-a-vìs che egli si è dato”.
Del resto, dire UOMO significa dire PAROLA, poiché “la facoltà del parlare, non è nell’uomo soltanto una capacità che si ponga accanto alle altre. È per contro La facoltà che fa dell’uomo un uomo”. (M. Heidegger)
Dire “parola” significa dire innanzitutto relazione, comunicazione, dialogo interpersonale e amicale.
Già il Dio del Primo Testamento non era solo, non amava la solitudine, aveva la passione per l’alleanza che è volontà di comunione, di compromissione, di incontro sponsale.
Questo lo sapevamo e non è poco, ma non basta.
Il Prologo ci dice che Dio è Parola, è relazione, comunicazione e incontro all’interno del suo essere e della sua vita personale, prima ancora che all’esterno con il mondo degli uomini.
Riconduciamo il nostro sguardo al rapporto del Verbo con il Padre.
Questa Parola preesistente alla creazione è in un atteggiamento di profonda confidenza verso il Padre: “en pros ton Theon” possiamo tradurre: “rivolta verso Iddio”.
È importante il “pros” (presso) perché ci illumina sulla qualità e sulla modalità della relazione della Parola con Iddio.
1) Valenza dinamica:
“Essere verso…” significa avere un rapporto dinamico. La relazione è “movimento” in Dio. Movimento che ha come “motore” l’amore.
2) Valenza statica:
il “pros” ha anche una valenza statica. Forse sembra contraddire quanto detto sopra. Cosa significa? Che in Dio la relazione è “stabile”.
Staticità, allora in Dio non è immobilismo ma radicamento fedele.
È questa stabilità a fondere una comunione di vita, tanto che l’essere in diviene essere con ed essere per l’amore.
3) Comunione nella differenza.
Giovanni afferma che “il Verbo era rivolto verso Dio” (ton Theon).
Quando vi è l’articolo davanti al nome di Dio è sempre in riferimento al Padre. Questa sfumatura evidenzia come il rapporto vive nella diversità.
L’amore nella relazione trinitaria non tende alla fusione ma all’accoglienza della diversità, nella quale vive a sua volta la koinonia.
1) movimento estatico.
Il “pros” lo manifesta chiaramente.
Cos’è l’estasi (ekstasis)?
È l’uscita da sé, un esodo.
È un movimento che parte dall’io per raggiungere il tu e far nascere l’incontro. Questo movimento estatico comporta l’oblatività come dono di sé e preesige la gratuità dell’amore.
È importante la gratuità dell’amore estatico perché nel dono di sé all’altro, al tu amato, non si deve cercare nulla al di fuori di ciò che è l’altro, il tu.
Agostino diceva: “Premium dilectionis, ipse dilctus”. In Dio questo movimento dell’amore è esterno e incessante.
2) movimento kenotico.
La kenosis è l’apertura in sé all’altro, è un autolimitarsi perché l’altro sia e sia autonomamente.
Secondo la teoria ebraica dello tzim-tzum l’autolimitazione di Dio ha reso possibile la creazione. La kenosis non è solo ristretta al mistero della Incarnazione del Verbo, alla sua passione e morte, ma è un modo d’essere della Trinità.
3) movimento estetico.
Ekstasis e kenosis fanno risplendere il sole del Regno, la sua bellezza irradiante. Dire estetica significa dire: armonia, ordine, stupore, bellezza. Pietro esorta i credenti ad avere una vita santa e una condotta bella (1 Pt 1,15-16; 2,12).
La condotta bella contrasta con la bruttura dell’egoismo. La vita cristiana della vita trinitaria è filocalica.
“Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (v. 9).
Il Verbo di Dio è presentato sempre nell’atto del venire: viene nella creazione, viene nella storia, viene nella carne. Eppure non riconosciuto non è accolto.
Il verbo “riconoscere” (cfr.Rm 1,20-21) indica che il Verbo può essere riconosciuto nella creazione attraverso le sue opere. Le opere rimandano al Creatore. Eppure, nonostante questo riconoscimento fosse possibile il mondo non ha voluto riconoscerlo. L’insuccesso è ancora maggiore tra il suo popolo, che non l’accoglie.
Ma il Verbo nonostante questa resistenza, viene nel mondo. Anzi, dice Giovanni “si fa carne”. Da “presso il Padre” a “con gli uomini”, uno di loro, solidale con loro (è il senso di sarx). Entra nella precarietà umana (la tenda). Questa venuta è contemplata dalla comunità credente (“e noi vedemmo”). Cosa intende Gv per gloria contemplata? La fedeltà e l’amore di Dio resi visibili in Cristo. Contemplare la gloria significa sperimentare l’amore fedele di Dio. Questa è la condizione della fede (Gv 2,11).
L’associazione di “Grazia e Verità” (charis e aletheia) evoca l’associazione frequente nel Primo Testamento di CHEESED che esprime la bontà di Dio e si china sull’umanità per salvarla e ‘EMET, che indica la fedeltà di Dio alle promesse dell’alleanza, come pure la verità di Dio sull’uomo e sul mondo.
Viene spontaneo qui citare in parallelo, il Natale della lettera a Tito: “E’ apparsa infatti la grazia (charis) di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini… quando è apparsa la bontà (chrèstotès) e l’amore (philantropia) di Dio nostro Salvatore” (Tt 2,11;3,4).
La sublime amabile benevolenza di Dio, e insieme la sempre bramata e mai totalmente afferrata verità verità su di noi e sulla vita, sono apparse nel volto umano di Gesù. E’ lui, e lui soltanto la compiuta epifania di Dio,la perfetta icona di Dio.
Questa testimonianza è una testimonianza “gridata” dal ruolo permanente di Giovanni Battista. Il testimone il quale si riduce ad “io non sono” (1,20) per far totalmente spazio a colui “che esisteva prima di me” (v.15). Una testimonianza che viene offerta anche all’uomo di oggi che vuole cercare, scoprire e testimoniare onestamente la verità conosciuta.
Ma a ben riflettere questa verità era già inscritta da qualche parte, ci preesiste, ci precede. Come l’ispirazione, anche la scoperta della verità nasce dall’incontro dello spirito umano con l’altro mondo, l’altra sponda.
Commentava M.Buber: “Colui che conosce il soffio dello spirito commette peccato se vuol farsene signore, o se si vuole verificarne la qualità. Ma attribuirsene il merito, sarebbe anche un segno di slealtà”. (Il principio dialogico)
“Nessuno ha mai visto Dio…” (v.18)
Dio è il Santo, il Tutt’Altro, il Terribile, è colui di cui gli uomini fossero anche un Mosè o un Isaia cfr. Es 32,22-23 _ Is 6,15) non possono “vedere la faccia” senza morire.
“L’Unigenito Dio, quello che è rivolto verso il seno del Padre, egli stesso lo ha raccontato”.
Gesù Cristo, parola fatta carne è l’unico esegeta del Padre.
Giovanni proclama solennemente questa verità contro ogni pretesa umana di giungere autonomamente alla conoscenza perfetta di Dio per via diretta, impiegando la ragione o l’esercizio mistico, attraverso l’iniziazione di una qualsiasi “gnosi”.
Il Prologo di Giovanni risponde all’interrogativo che sottende l’antico sogno dell’uomo, la mai sopita nostalgia umana di raggiungere Dio, di vederlo.
L’Unigenito Dio, la Parola fatta carne, ha raccontato Dio con un lungo racconto che parte da molto lontano perché questa Parola è la Parola creatrice che “illumina ogni uomo”.
Commenta acutamente a proposito Enzo Bianchi:
“Gesù ha evangelizzato Dio nel senso che ha reso Dio buona notizia, ha reso Dio evangelo: narrando Dio con la propria vita, Gesù ha giudicato tutte le immagini e i volti di Dio che gli uomini si fabbricano con le loro mani, ha giudicato tutte le proiezioni umane che sovente attribuiscono a Dio il volto di un Dio perverso… Gesù ha posto fine una volta per tutte e queste narrazioni di Dio, lo ha evangelizzato! E ciò si badi bene ha delle conseguenze determinanti: se Gesù ha sempre amato e perdonato i peccatori, Dio non li ripudia.
In una parola: ciò che di Dio Gesù non ha narrato, non è più possibile proiettarlo su Dio stesso. Ecco dunque il Dio dei cristiani: non solo il Dio di Gesù Cristo nel senso con cui noi possiamo parlare del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, ma di Dio che quando ha voluto mostrarsi e parlare compiutamente, senza opacità, lo ha fatto in un uomo, Gesù”.
(Quale uomo, quale Dio nel cristianesimo 2005)
http://www.figliedellachiesa.org